Il mio primo romanzo Ali spezzate (una storia vera) di Mia Wood, agosto 2012 edito da Youcanprint

https://www.youcanprint.it/youcanprint-libreria/narrativa/ali-spezzate-wood.html

 

Sono nato a Everglades City il 30 dicembre 1965 in una notte gelida e nebbiosa, l’antivigilia di un capodanno come tanti, l’ennesimo pieno di speranze.

La mia famiglia viveva ai margini delle paludi, in una casa povera e spartana: è lì che venni alla luce. Ero il settimo di dieci figli, tutti partoriti in casa. Un’abitudine comune, specialmente per chi proveniva da famiglie disagiate, con la povertà come compagna fedele.

Chantal, mia madre, era una donna semplice, amorevole e dolce, ma stanca e silenziosa nel suo ruolo di donna e soprattutto di moglie. Lunghi capelli neri avvolti in uno chignon e, a loro volta, quasi sempre, nascosti da un fazzoletto nero. Un viso giovane, nonostante le fatiche della vita e le tante gravidanze lo avessero reso un po’ spento. Ero il settimo figlio di Chantal e Robert, padre-padrone, scansafatiche e prepotente, ubriaco dall'alba al tramonto. Il cui unico “lavoro” consisteva nel comandare moglie e figli, facendosi servire senza possibilità di replica o ribellione; in caso contrario, si era ripagati con botte e violenze.

Sarei cresciuto in questo contesto familiare, con la mancanza di una figura paterna solida alla quale affidare le mie manine di bimbo alla scoperta della vita. E la mancata presenza di una madre che, con dieci figli, non aveva il tempo neppure per donare un abbraccio o un bacio. Solo lavorare, cucinare e lavare i panni smessi dai “signorini”. Il resto non aveva importanza: la gente povera come noi non vive, ma sopravvive. Sempre che ci riesca.

Crebbi in quell’atmosfera pesante, nelle lande desolate delle Everglades. L'unica mia compagna di giochi era l'estrema povertà che non permetteva certo una vita degna di chiamarsi tale. Erano tante le bocche da sfamare, con poco o niente da mettere nello stomaco. Un padre dedito all’alcol, alla violenza, che passava le proprie giornate fra botteghe nelle quali ubriacarsi e donne con le quali spendere il denaro guadagnato dai miei fratelli, che pagavano questo prezzo per stare al mondo. Era mio padre stesso che passava a ritirare i loro stipendi direttamente dai datori di lavoro. Avevo circa quattro anni e ricordo che una notte sentii il rumore delle chiavi muoversi nella toppa; ero in cucina e stavo bevendo un bicchiere di latte. Immaginavo fosse lui. La porta si aprì e fui investito da un tanfo di alcol. Mio padre entrò senza neanche salutarmi: ero invisibile per lui. Si diresse in camera sua e chiuse la porta. Io, incuriosito, svuotai il mio bicchiere d’un fiato e mi avvicinai alla porta per spiare dal buco della serratura. Lo vidi seduto al tavolo infilarsi una mano in tasca ed estrarre un mazzo di banconote. Erano gli stipendi dei miei fratelli.

C’era un’altra cosa che mi incuriosiva nel suo comportamento ed era quando si chiudeva in camera con mia madre. Sentivo rumori e mugolii che spesso mi svegliavano. Una notte decisi di scoprire e vidi che faceva una cosa a mia madre, che però non sembrava esserne felice. Lei, impotente, lo lasciava fare e lui così le andava sopra ed espletava i suoi bisogni e istinti animaleschi, senza dolcezza e senza amore. E ogni tanto avveniva “l'incidente di percorso”: dieci figli fatti così, uno dietro l’altro.

Ogni anno, nella cittadina, era consuetudine eleggere la famiglia più povera, la quale girando casa per casa, raccontava della sua povertà: in questo modo poteva raccogliere indumenti, scarpe, cibo, qualunque cosa atta al sostentamento per un anno intero. Furono diverse le volte nelle quali la famiglia più povera fu la mia.

Il mio passatempo preferito era correre per i vicoli del quartiere. Dopo la pioggia era tutto più divertente, con le pozzanghere. Quando pioveva alzavo gli occhi verso il cielo e aprendo la bocca cercavo di inghiottire quell’acqua pura, come per lavare via ogni cosa, ogni male. I miei  vestiti erano quelli smessi di chi era caritatevole e li donava alla famiglia; le scarpe erano quasi sempre sul punto di disfarsi. Spesso mi ritrovavo a correre a piedi scalzi, sulla terra e sull’asfalto, al sole e con la pioggia.

Di ritorno da corse e giochi nelle paludi, dove scavavo in cerca di piccoli tesori come conchiglie, tappi di bottiglia o sassi con forme strane e dai riflessi ambrati, finivo in vicoli bui e isolati, come “assetato” di nuove scoperte; quella sete di conoscenza che contraddistingue ogni bambino in quella fase della crescita.

Mi imbattevo in personaggi loschi, buttati sui marciapiedi ubriachi o in comitive di ragazzi più grandi, provenienti anch’essi da famiglie povere, già prede di individui senza scrupoli, i quali venivano reclutati per piccoli furti o atti vandalici in cambio di qualcosa da mangiare, di sigarette o di qualche dollaro.

Per far paura ai bambini di strada, la gente raccontava di un “uomo nero” che si aggirava per rapirli, allettandoli con dolci e giocattoli che lui stesso intagliava nel legno, raffiguranti piccoli animali, che rivendeva nelle sagre. Tutti lo descrivevano come un mostro.

Un giorno, tornando dalla palude, mi sedetti su un marciapiede per contare le conchiglie che avevo trovato e sistemarle in fila, dalla più piccola alla più grande, avendo promesso ai miei amici di mostrargli il mio  “bottino”. Ci eravamo dati appuntamento per quel giorno. Arrivarono dopo poco i miei amici Samuel e Danny e iniziammo a giocare. Come apparso dal nulla, spuntò quell’uomo, dal quale tutti dicevano di starne lontano. Samuel esclamò: «Guardate.. è arrivato l’uomo nero!». Ci guardammo tutti e tre per un attimo, mentre seguivamo con la coda dell’occhio quello strano signore sistemare alcuni scatole sul muretto in fondo alla strada. Danny ammutolì, sgranò gli occhi e disse: «Devo andare.. devo andare!!». E scappò via lasciando cadere una delle mie conchiglie dalle mani. Anche Samuel sembrava tremare e con una scusa si allontanò in tutta fretta. Io rimasi lì a raccogliere le mie cose e in quel momento quell’uomo si avvicinò a me.

«Ma che belle le tue conchiglie.. un vero tesoro!», mi disse. Abbassai lo sguardo e pensai per un attimo di scappare anche io come i miei amici. Rimasi lì impietrito ma fermo sui miei piedi, coraggioso. Lo guardai bene: ero ingenuo ma molto curioso. Notai le sue grosse scarpe, lucide e nuove, che stonavano con la povertà del suo aspetto. Rimasi affascinato dalla loro lucentezza e bellezza.

Quando il suo sguardo incontrò il mio, però, fui preso dalla paura e scappai di corsa, senza nemmeno voltarmi.

Dopo qualche giorno, mi stavo dissetando a una fontana per strada e rividi quell’uomo...(continua nel libro)